Management ed Emergenza

Emergenza e sincronizzazione spontanea sono processi caratteristici nei sistemi che si auto-organizzano. E' quello che è accaduto durante il convegno "Uscire dalla crisi : nuovi modelli per il management", tenutosi a Milano il 21 luglio ed organizzato da  Francesco Zanotti della M&C,

 on la consulenza scientifica dell'AIRS (Associazione Italiana per la Ricerca sui Sistemi), rappresentata dal guru della sistemica italiana, Prof. Gianfranco Minati, e dall' ISEM (Institute for Scientific Methodology),  di cui sono con il chimico Mario Pagliaro il fondatore.

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Cosa significa fare impresa in una società che non può più essere modellizzata dalla metafora della macchina?Come si gestiscono i processi di cambiamento (costruzione) dell’organizzazione e del mercato?In sintesi: come si costruisce sviluppo etico ed estetico? Queste le domande comuni ad un operatore nel campo della consulenza d’impresa, ad un epistemologo costruttivista, ad un fisico dei sistemi collettivi che studia i processi di produzione scientifica.
Come le  voci di un’invenzione di Bach , tre approcci e linguaggi diversi si sono intrecciati ed integrati in una visione unitaria. L'idea di fondo è che la "crisi" che stiamo vivendo è frutto di miopia culturale e richiede una "riflessione trasgressiva"  sulla necessità di nuovi modelli e metafore per leggere e trasformare il reale. Che significa poi ritrovare gli anelli di congiunzione vitali tra economia, ecologia ed epistemologia ed imparare a vederne le possibili rotte di collisione . E' il tema sempre più urgente posto da un sistema in cui la produzione non è più basata esclusivamente sui beni materiali , ma sulle dinamiche delle relazioni intellettuali ed emozionali tra esseri umani e  sull’emergenza di nuovi soggetti sociali. Vedi ad es. Andrea Fumagalli e Sandro Mezzadra (a cura di),
Crisi dell'economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, postfazione di Toni Negri, Verona, Ombre Corte, 2009, e l'indispensabile: Marcello Cini, "Il SuperMarket di Prometeo. La scienza nell'era dell'economia della conoscenza” , Codice Ed.,2008)

Il modo di pensare della società industriale e del  mercato è  ancora basato invece su un modello riduzionista e meccanico di homo oeconomicus stilizzato  quanto quello degli urti perfettamente elastici o dei fluidi perfetti in fisica classica, ed è centrato su nozioni di stabilità, equilibrio e dinamiche deterministiche  insufficienti a cogliere la complessità del quadro socio-economico. Come dice  Paul Wilmott: "Fidarsi delle formule era come stare seduti con la cintura di sicurezza allacciata guidando come pazzi: non serve a salvarti la vita. Le persone che si occupano di gestione  sanno ben poco di ciò che dovrebbero; non hanno spirito critico, non hanno testato i dati e non hanno usato la loro immaginazione per cercare vie d’uscita ai problemi”.

Inutile dire che la "politica" segue a ruota e diventa il paradigma di un modello infecondo.

Una  tipica risposta apparente ed "automatica", sono le dinamiche "competitive", che si presentano come liberazione di energie creative e sono invece in larga misura strategie di difesa e conservazione: la concorrenza non nasce dal mercato ma è una forma di auto-costruzione dei partecipanti, di legittimizzazione reciproca e di accumulazione delle “anomalie” ai margini.

Come fisico  non ho potuto fare a meno di pensare  a molte teorie alla moda che hanno già esaurito il loro ciclo vitale e si  presentano invece – anche grazie alla beatificazione mediatica – come vive, combattive ed "eleganti", ben arroccate nel loro castello di papers  crescenti con una velocità superiore a quella della luce (possono farlo  perché, come dice Bob Laughlin, non trasportano informazione!).
Particolarmente interessante è il caso della mitologia diffusa  dell'innovazione tecnologica,  che non può colmare il gap della produzione  di ricchezza delle imprese tradizionali e sopratutto non cambia il rapporto tra lavoro, capitale ed ambiente. La tecnologia, in sé, non può essere un driver di nuove progettualità, ma assume piuttosto il ruolo di racconto  consolatorio sulle sorti magnifiche e progressive alle quali si vuol  credere. Questo tipo di "story-telling" ha l'unica funzione  di "tirare il collo" alla famosa funzione logistica, la curva ad S usata per modellizzare i processi di sviluppo. All'inizio la crescita è quasi  esponenziale, successivamente rallenta, diventando quasi lineare, per  raggiungere una posizione asintotica dove non c'è più crescita. La competizione ed un'errata, o demagogica, visione dell'innovazione ha proprio il ruolo di ritardare il destino asintotico della curva di crescita, dove invece il problema è quello di innescare  una nuova singolarità.

Ma questo non avviene,  perché gli schemi cognitivi utilizzati sono sempre gli stessi.

E' necessario dunque un ripensamento radicale del rapporto tra conoscenza e mercato, ed accettare la sfida dell'incertezza radicale, la povertà della completezza e la ricchezza dell’incompletezza,  imparando a rilevare emergenza (Minati).

Come ha scritto Cesare Sacerdoti sul Tempo Economico annunciando la giornata di studio:

“Per quanto riguarda i “pratictioners” lo stato dell’arte dell’utilizzo della cultura strategica rasenta l’ignavia. Un solo esempio: definire un business plan “Info memorandum” è davvero la dichiarazione, sostanziale se non formale, che la nostra conoscenza riesce solo a descrivere il presente, a prenderne atto. Se, poi, guardiamo a più generali culture e pratiche di Governo lo scenario è ancora più deludente, sia nella teoria che nella pratica”.  Clip_image002

Le tradizionali analogie tra ecosistemi ed sistemi socio-economici mostrano una debolezza che è stata la sorgente storica di tante deformazioni "naturalistiche" della teoria economica (vedi L'Orologiaio Cieco e la Mano Invisibile). Un ecosistema non ha un modello cognitivo di sé stesso, un sistema socio-economico si! Il punto essenziale è che il management è non semplicemente una derivazione economica dell'azienda, ma ne costituisce il sistema cognitivo (Licata).

Un esempio è la marginalizzazione del concetto di cooperazione, riservato ad una dimensione "etica" ed "estetica" del mercato e dunque ineluttabilmente "altra".La "cooperazione" di cui parliamo- trasportata dai paesaggi di fitness della Artificial Life- nasce dalla capacità di una classe manageriale di usare più strumenti interpretativi per comprendere il mondo, ed il suo "successo" dipende  dall'ampiezza dei suoi strumenti epistemologici e dalla loro capacità di accogliere  le dinamiche sociali, non puntando su un "bisogno" o inducendolo, ma entrando in sintonia con le esigenze profonde del tempo. Sfuma dunque la tradizionale distinzione tra stakeholders e shakeholders in una visione costruttivista e sistemica delle dinamiche sociali (Minati). Stesso discorso per la “sostenibilità”, non più fanalino di coda o fiore di carta utopico, ma capacità di pensare il rapporto tra sistema- impresa ed ambiente a lungo termine ed in senso globale. 

 Il manager è dunque come un “operatore quantistico” che agisce sulle potenzialità del possibile rendendole reali ( Zanotti). Ma non ci si è limitati ad una discussione critica per metafore. All’interno del modello “Sorgente Aperta” di Zanotti è stato proposto un modello di life-cycle e di rating delle imprese basato su una matrice "fuzzy" estremamente facile da usare ed assai più efficace di certi schemi che somigliano alla risposta “quantitativamente esatta” del computer della Guida Galattica per Autostoppisti, di Douglas Adams:

Quarantadue!" urlò Loonquawl. "Questo è tutto ciò che sai dire dopo un lavoro di sette milioni e mezzo di anni?"
"Ho controllato molto approfonditamente," disse il computer, "e questa è sicuramente la risposta. Ad essere sinceri, penso che il problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la domanda."

Un’ immagine, per concludere. Il colosso Sony nacque  nel Giappone disastrato del 1946 dalla visione di Akio Morita, un fisico, e Masaru Ibuka, ingegnere,  per “riportare alto l'onore del Giappone nel mondo”. A ricordarci che il successo di un’impresa- economica, scientifica, culturale- è sempre il risultato di una storia  d’amore con il proprio tempo. 

 

  • Nicola Antonucci |

    Grazie Ignazio per le sintesi e gli sputni del tuo intervento a Milano (nonché degli altri relatori).
    Focalizzo qui per brevità solo uno dei tuoi concetti illuminanti: management come sistema cognitivo – ben detto!
    Un sistema cognitivo che, in regime di elevata complessità (o persino caos), non si fida più delle formule (quelle dei “quants” finanziari – David Li in testa – che hanno illuso gli ingenui e ignoranti banchieri…), non crede più nel determinismo (senza ancora comprendere le “nubi di probabilità” quantistiche), vorrebbe credere nell’etica e nell’estetica ma…
    Ecco il “ma”, che è in realtà il vecchio “Paradosso del Bootstrap”: come fa un sistema cognitivo a essere tale se ancora… non ne è consapevole..?!
    Ovvio: occorre dirglielo. Ma… se £no nhanno avuto accesso per esperienza a certe cose, non avranno neanche orecchi per udire la novità, non impareranno nulla dagli altri, libri compresi” (F.Nietzsche).
    Risolviamo insieme questo paradosso del Bootstrap…? “Facciamogli vedere”… che persino loro possono pensare, immaginare, creare in modo nuovo POSSIBILI SCENARI COMPLESSI per il loro problemi pratici, attuali, urgenti.
    Queso è il Talento che devono riconoscere per poi sviluppare per infine arrivare alla consapevolezza che il loro sistema cognitivo può essere quello dell’azienda.
    Occorre portarli a sessioni di Brainstorming Complesso dando loro il “quick win” di possibili soluzioni ai loro problemi di oggi: possibili scenari prima impensati che scardinano il semplicistico concetto di competizione (senza innovazione).
    “Chi di spunti “ferisce”, di spunti….”
    Grazie per ituoi spunti!
    Ad maiora!
    Nicola

  • Graziano Terenzi |

    Il riferimento alla corruzione dei commenti precedenti è, a mio avviso, piuttosto calzante in quanto mette in evidenza uno dei limiti intrinseci degli attuali meccanismi di governo, anche di quelli dei paesi considerati più avanzati. In particolare, credo che questo fenomeno lobbistico, il quale di per sè non è altro che un’espressione della naturale tendenza dei gruppi umani ad organizzarsi per raggiungere degli obiettivi, diventa un problema solo quando non si disponga di adeguati strumenti di “governo”.
    E’ perfettamente comprensibile, infatti, che chi produce un “bene” cerchi di predisporre i sistemi migliori perchè possa trarre il più grande profitto possibile dal posizionamento di quel “bene”. Il problema emerge quando quel “bene” è un bene per pochi, mentre è un male per molti altri. In generale questo significa che gli obiettivi che le lobbies perseguono spesso corrispondono a valori che sono tali per un gruppo ristretto di “shareholders”, mentre non sono affatto tali per tutti gli stakeholders in qualche modo toccati dall’azione lobbistica. In questo senso l’etica è sicuramente importante. Ma come possiamo far emergere un’etica nuova, dinamica, non ristretta, che tenga conto dei valori di ciascun essere vivente, senza imporre schemi “razionali” che già hanno provato abbondantemente i propri limiti?
    Qui il problema a mio avviso, è duplice.
    Da un lato esso è legato ad una concezione ristretta dell’economia e della società, che riduce l’uomo a un semplice “dispositivo per la massimizzazione dell’utilità”, il quale nelle interazioni sociali persegue il massimo profitto, espresso a sua volta in termini esclusivamente monetari. Qui il problema è profondo e tradisce un fraintendimento grave degli stessi principi che stanno alla base del pensiero economico classico. Già Adam Smith, infatti, nella sua Dottrina dei Sentimenti Morali (che peraltro sta alla base del suo pensiero economico) riconosceva che alla base del comportamento umano esiste un insieme di valori, psicologici, biologici e sociali, senza i quali qualunque attività umana perderebbe di senso. L’idea di poter misurare tutti questi fattori in termini monetari è molto problematica. Non è affatto dimostrato che questa sia l’unica strada percorribile, nè tantomeno la migliore, e nemmeno che sia in generale sensato. La massimizzazione dell’utilità sarebbe pertanto meglio concepita come la massimizzazione congiunta di questo spettro ampio di valori, ciascuno misurato in maniera opportuna, piuttosto che come la massimizzazione di un profitto espresso esclusivamente in termini monetari.
    E’ chiaro che se l’utilità fosse concepita in termini più estesi, tali da includere anche parametri di benessere globale (il che è indispensabile se si pensa alle istanze condivise dello sviluppo sostenibile), allora ne risulterebbe ridisegnato completamente il modo con il quale gli attori economici misurano la propria performance, con un impatto positivo sul mondo e sulla società.
    Dall’altro lato, invece, il problema è legato al modo attraverso il quale le decisioni vengono prese. Ogni decisione, per quanto apparentemente ristretta, ha delle conseguenze importanti non solo sugli attori economici e sociali che la effettuano, ma anche e soprattutto su un insieme molto più ampio di portatori di interesse i quali, pur essendo toccati profondamente dagli effetti della decisione, sono esclusi dalla procedura decisionale. E questo vale indipendentemente dalla scala, sia che si tratti di decisioni prese nei consigli comunali, o quelle prese nei consigli di amministrazione di imprese pubbliche e private, o quelle prese da istituzioni come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, le cui decisioni per esempio hanno un impatto su interi Paesi. Perchè gli effetti di una decisione non siano negativi per il contesto nel quale la decisione opererà le sue conseguenze, occorre che essa venga presa in maniera interattiva coinvolgendo i vari stakeholders in un dialogo aperto e strutturato. Questo non è sempre “facile”, anzi, quasi mai lo è. Però il fatto che non sia facile non implica che non sia possibile. Soprattutto oggi questo è ancora più necessario, data l’estensione ampia delle conseguenze delle decisioni prese a livello globale. E lo è ancora di più per il fatto che disponiamo o possiamo disporre di nuovi strumenti di decision taking che permetterebbero di ristrutturare in maniera interattiva le istituzioni e i processi decisionali.
    Un saluto
    Graziano Terenzi

  • Rita Benigno |

    @ Mario
    Ti ringrazio per l’apprezzamento. Mi piace molto il tuo esempio ittico :-))
    Ci tengo a precisare che, anche se i miei esempi sono riferiti all’Italia (perché è il mio Paese ed è anche quello che conosco meglio), credo si sia compreso che il mio discorso è indirizzato “erga omnes”, come si suol dire. La corruzione pubblica e privata dilaga in tutto il mondo e la cronaca ce ne offre testimonianza costante. Forse – rispetto all’Italia – ciò che è differente è la reazione dell’opinione pubblica ed anche il ruolo dei media. Ma i guasti prodotti dai fenomeni lobbistici sono davvero globali, nonostante si tenti a non farne parola. Troppe volte, per esempio, ci si è riferiti agli Stati Uniti quale Paese campione di democrazia e di trasparenza, elogiando il fatto che il lobbismo sia regolamentato ed alla luce del sole, tale da essere diventato una vera e propria professione. Si tace, però, sul fatto che troppo spesso sono queste lobby a determinare le politiche di parlamenti e governi in un senso che non sempre corrisponde all’interesse generale. Penso alle politiche ambientali ed energetiche americane pre-Obama, tanto per citarne qualcuna. Ma anche agli interessi, non sempre trasparenti, delle ONG che operano nel campo delle emergenze umanitarie. Oppure agli scandalosi brevetti farmaceutici su farmaci salvavita, che impediscono a milioni di persone del Terzo Mondo l’accesso alle cure. L’elenco sarebbe davvero troppo lungo … il destino degli uomini è nelle mani di una triade circolare feroce: multinazionali/decisori politici/manager pubblici. Il quadro sembra non lasciare grandi aperture neppure ad un cauto ottimismo. Malgrado ciò, anch’io sento di averne ancora. C’è dentro di me quell’ottimismo dell’utopia che è il solo in grado di poter cambiare il mondo.

  • Rita Benigno |

    @ Mario
    Ti ringrazio per l’apprezzamento. Mi piace molto il tuo esempio ittico :-))
    Ci tengo a precisare che, anche se i miei esempi sono riferiti all’Italia (perché è il mio Paese ed è anche quello che conosco meglio), credo si sia compreso che il mio discorso è indirizzato “erga omnes”, come si suol dire. La corruzione pubblica e privata dilaga in tutto il mondo e la cronaca ce ne offre testimonianza costante. Forse – rispetto all’Italia – ciò che è differente è la reazione dell’opinione pubblica ed anche il ruolo dei media. Ma i guasti prodotti dai fenomeni lobbistici sono davvero globali, nonostante si tenti a non farne parola. Troppe volte, per esempio, ci si è riferiti agli Stati Uniti quale Paese campione di democrazia e di trasparenza, elogiando il fatto che il lobbismo sia regolamentato ed alla luce del sole, tale da essere diventato una vera e propria professione. Si tace, però, sul fatto che troppo spesso sono queste lobby a determinare le politiche di parlamenti e governi in un senso che non sempre corrisponde all’interesse generale. Penso alle politiche ambientali ed energetiche americane pre-Obama, tanto per citarne qualcuna. Ma anche agli interessi, non sempre trasparenti, delle ONG che operano nel campo delle emergenze umanitarie. Oppure agli scandalosi brevetti farmaceutici su farmaci salvavita, che impediscono a milioni di persone del Terzo Mondo l’accesso alle cure. L’elenco sarebbe davvero troppo lungo … il destino degli uomini è nelle mani di una triade circolare feroce: multinazionali/decisori politici/manager pubblici. Il quadro sembra non lasciare grandi aperture neppure ad un cauto ottimismo. Malgrado ciò, anch’io sento di averne ancora. C’è dentro di me quell’ottimismo dell’utopia che è il solo in grado di poter cambiare il mondo.

  • Alessandro Giuliani |

    Caro Ignazio,
    come sempre molto azzeccato, tu sai meglio di me che le singolarità sono la ‘bestia nera’ della matematica continuista, e che in qualche modo si situano in uno spazio delle fasi ‘altro’ da quello che descrive la dinamica ‘normale’ del sistema.
    Per cui se sono d’accordo sulla necessità di ‘cercare un singolarità’ e quindi di abbandonare i precedenti ‘criteri di ottimo’ vedo l’aporia di andarla a cercare in uno spazio dove non è definibile. Allora forse il punto è proprio quello di allargare lo spettro di ciò che consideriamo ‘ragione’, allora siamo in un punto in cui la poesia può essere più pragmatica del calcolo.

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