La tentazione della macchina leggi-pensieri

 

Oppenheimer disse che "i fisici hanno conosciuto il peccato". Si riferiva alla bomba. A leggerla oggi mi viene in mente piuttosto  quante volte noi fisici l'abbiamo sparata grossa con le "teorie del tutto", gli scenari cosmologici e tante altre questioni……Motivo per cui ci viene facile riconoscere in altre categorie di studiosi – che fortunatamente! ci hanno ormai sorpassato nel prestigio sociale –  la stessa tentazione.
6nw20o Un esempio è l'uso piuttosto disinvolto che si è fatto di uno strumento prezioso come lo studio delle neuro-immagini ricavate dalla risonanza magnetica funzionale (fMRI).
Anche in questo caso i corollari concettuali del riduzionismo, il mito della spiegazione ultima e del controllo, associati a forme di materialismo sdentato, hanno prodotto l'ipotesi di una vera e propria "macchina leggi- pensieri" che naturalmente non ha alcun fondamento scientifico ma serve a promuovere un'immagine "prometeica" della disciplina (con i vantaggi di un largo consenso sociale). Su questa fantasiosa “macchina” evocata dai neurodeliri di alcuni ricercatori raccolti dai media avevo già ironizzato nel mio
La logica aperta della mente (Codice, 2008).
Ricordiamo che il fabbisogno energetico dell'attività neurale è molto grande e richiede dunque un grande apporto di emoglobina, trasportata dai globuli rossi , per sostenere il metabolismo cerebrale. La fMRI permette di misurare l'afflusso differenziale emodinamico nelle diverse aree del cervello. E' possibile dunque ricavare informazioni preziose: le immagini "colorate" dal maggior flusso di emoglobina indicano le zone "calde" di attivazione. Si tratta naturalmente di una tecnica di grande interesse teorico e diagnostico, ma a volte gli scienziati si fanno prendere la mano, dimenticano la cautela metodologica e si avventurano in interpretazioni forzate. Ecco che i giornali si riempiono di "spiegazioni" delle più disparate attività mentali: neuro-etica, neuro-finanza fino alla neuroteologia.


Recentemente, e con grandissima serietà, si è parlato di "cosa succede nella mente quando si pensa a Dio". Non è specificato se si tratta del Dio della contadina tedesca che legge soltanto

la Bibbia di Lutero, portata come esempio di lettore virtuoso contro il lettore alla moda da H. Hesse o di quello di Santa Teresa D'Avila, ma i risultati sono piuttosto ovvi: quando si discute dell'esistenza di Dio si attivano le aree delegate all'attività logico-linguistica, mentre quando si parla di "castigo" o"collera" o "conforto" divino le aree in questione sono le stesse correlate all'affettività!

Naturalmente non esiste una mente che, come il naso della  novella di Gogol, se ne va in giro senza un cervello. Ma non bisogna dimenticare che il flusso emodinamico è un indicatore " a grana grossa" dell'attività elettrica neuronale, e dunque bisogna andarci piano nella ricerca di "correlazioni".
Già uno studio di due psicologi pubblicato nel 2008  dalla rivista
Cognition  mostrava come neuro-immagini manipolate ad arte potessero indurre i 150 studenti  scelti come campione ad estrapolare conseguenze neurocognitive a dir poco assurde, come concludere che guardare la tv stimolava le capacità matematiche!  Su Nature, Nikos K. Logothetis faceva il punto sul rischio di neofrenologia con l'articolo dal titolo eloquente: What we can do and what we cannot do with fMRI.

 

A dare un nuovo contributo per smontare l'uso improprio delle neuro-immagini è arrivato  il lavoro di Sirotin e Das su Nature del febbraio 2009. I due studiosi hanno misurato l'attività elettrica del cervello ed il flusso emodinamico del solito macaco addestrato a fissare un segnale luminoso a vari intervalli in due situazioni: ambiente ricco di stimoli visivi e ambiente buio, con soltanto il segnale-target in funzione. Si è osservato che nel primo caso, in cui l'attività neurale è molto complessa, le misure del flusso emodinamico e quella elettrica mostrano forti picchi di correlazione, mentre nel secondo caso sono totalmente non correlate tra loro, e soltanto il flusso emodinamico è in fase con la temporizzazione dello stimolo, risultato che suggerisce domande nuove ed ancora una volta mette in guardia  sulle interpretazioni che associano le misure locali dell’attività elettrica neuronale con i correlati del flusso dell’emoglobina, visto che si tratta di misure che lavorano su range di scala diversi.

Einstein ricordava che le teorie, libere creazioni della mente umana, sono “sotto-determinate dai dati sperimentali”. Ma, possiamo aggiungere, sovra-determinate dal trend culturale in cui si sviluppano.

14578__clockwork_l Un ottimo antidoto contro queste tendenze è il recente Neuromania. Il Cervello non spiega chi siamo di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà (Il Mulino, 2009). Come conclusione- naturalmente  provvisoria- voglio ricordare ciò che ha scritto Eric Kandel, uno dei massimi neuroscienziati viventi, nel suo Alla Ricerca della Memoria (Codice, 2007) :” Non si può inferire la somma complessiva dell’attività neurale solo dall’osservazione di pochi circuiti  del cervello”.

Le neuroscienze sono attualmente solo una piccola intersezione tra lo studio del cervello e quello della mente: Il primo studia la circuiteria, la seconda emerge dall’incontro, unico ed irriducibile, tra la circuiteria ed il mondo.

 

  • Rita Benigno |

    Caro Ignazio,
    le tue riflessioni – a tratti anche ironiche e lievi, per ciò stesso apprezzabili proprio per la delicatezza di un linguaggio comprensibile da tutti – pongono una questione seria, per molti versi poco dibattuta per non dire volutamente tralasciata dalla maggioranza della comunità scientifica. Un ragionamento che fa pensare e che, personalmente, mi induce a pormi ed a porre degli interrogativi ai quali non è forse facile dare una risposta.
    Anche a prescindere dalla reale serietà e realizzabilità di una “macchina leggi-pensieri” e dagli stessi interessi che stanno alla base di un tal progetto, credo non ci si possa sottrarre dal discutere due temi fondamentali che investono non solo e non tanto questo specifico problema ma piuttosto le regole ed il principio della ricerca scientifica nella sua interezza. È questo il tempo, non più rinviabile o eludibile, in cui domandarsi se è non solo possibile ma piuttosto necessaria la promozione di un’etica scientifica ed in cui porsi anche la questione dei limiti della scienza e della tecnica.
    Certo le due cose presentano un legame indubbio, ma vorrei partire dall’ultima questione perché meglio si collega al ragionamento successivo.
    Sul punto osservo innanzi tutto che una certa dose di pensiero onnipotente è non soltanto insita, ma credo componente necessaria della personalità di uno scienziato; perché senza la presunzione di poter oltrepassare la cultura e la conoscenza del momento, forse l’uomo sarebbe ancora nelle condizioni del paleolitico. Il problema, invece, è che oggi sembra si sia passati dal pensiero al delirio di onnipotenza, con tutto ciò che ne consegue in termini di rilancio di una scienza pura che per ciò stesso nega la possibilità di un limite. Gli occhi dell’uomo di scienza, allora, diventano gli occhi dello strumento tecnico (non gli occhi sensibili certamente, ma neppure quelli della mente); e l’essere geniale dello scienziato si realizza solo a partire dalla rinuncia alla sua intellettualità, intesa come rinuncia allo stimolo personale alle cose. Desoggetivazione: un termine che porta con sé la domanda sull’essenza della scienza.
    Certo, non mancano gli scienziati che riconoscono i limiti cognitivi dell’uomo e quindi i confini della scienza. Noam Chomsky, per esempio, è stato uno dei primi a ricordarci che se ammettiamo che siamo anche noi animali e non “angeli”, dobbiamo anche accettare l’idea che certi problemi non riusciremo mai a risolverli perché sono oltre le nostre possibilità; e fra questi problemi irrisolvibili, egli include la coscienza ed il libero arbitrio (quindi, di rimando, anche il pensiero, la sua formazione e la sua conoscibilità). Ma la realtà è che quasi tutti gli altri sembrano cercare, invece, la “Risposta con la R maiuscola” (“The Answer”): sono cioè degli scienziati puri e come tali si comportano. Soggetti ai quali, in nome della scienza, tutto è consentito.
    Ora, proprio quest’ultima considerazione pone in primo piano il problema dell’etica scientifica. Su questo stesso piano esiste una regola della scienza che è insieme tecnica e morale: mi riferisco alla norma dell’aggiornamento. La violazione di tale regola è considerata dalla comunità scientifica un atto immorale, un tradimento della propria missione e dell’etica professionale in senso stretto. Ma se questo è forse giusto in campi come quello della medicina, è però facile comprendere che nel campo della conoscenza pura – ove portata all’estremo – rappresenta l’alibi per il superamento dei principi etici generali. A torto – e forse in malafede – da più parti si tenta di banalizzare la grande questione etica del nostro tempo nel senso di una contrapposizione fra religione e scienza. Ci troviamo, in realtà, di fronte ad una tematica che attiene al rispetto della dignità dell’uomo, della sua libertà, della sua tutela, ma non solo; c’è in campo l’enorme incognita del futuro del pianeta, di quello della specie, ma anche un discorso che si presenta oscuro su quale mondo e quale società stiamo costruendo per le generazioni che verranno – se verranno. Temi dunque assolutamente laici, ma che interpellano le intelligenze e le coscienze in maniera forte e prepotente. A tutto ciò molta parte della scienza si rifiuta semplicemente di dare una risposta, troppo tronfia del suo sapere planetario. Ma per concludere con un pensiero heideggeriano, vi è in ogni caso un punto in cui all’interno della pretesa di dominio della scienza emerge un’ombra; un “quid” inaccessibile, imprendibile, misterioso, che sta al fondo della realtà e che non può comunque essere messo a tacere. Un’ombra incalcolabile: ciò che si sottrae all’immagine del mondo.
    È per questo motivo che la scienza non riesce mai fino in fondo nel suo progetto.

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