A volte in un frammento è contenuta un’intera questione. All’altro capo del telefono un’amica umanista (bravissima nel suo campo) : “Hai sentito che la gravità non esiste?” , e poi, con maggiore incertezza: “pare che sia più che altro uno stato mentale”! Il riferimento è naturalmente alla recente teoria elaborata da Erik Verlinde, nell’ambito delle stringhe, sulla “emerging gravity”, questione ben nota in fisica, che inizia con Faraday ed arriva fino a Sacharov e Kleinert. Al solito, estrapolazioni ellittiche, metafore strapazzate, divulgazione a grana grossa, quel Public Understanding of Science con il quale bisogna fare i conti per promuovere lo sviluppo di una società fondata sulla conoscenza, uno degli obiettivi dell’Unione Europea. La suggestione della “terza cultura” di John Brockman ripropone il tema del rapporto tra scienza e società in termini che vanno ormai ben al di là del monito sul rischio di divorzio delle “due culture” di Percy Snow. Da noi basta leggere le terze pagine e fare un giro in libreria per vedere che “qualcosa si muove”, ed il calor bianco del dibattito suggerisce che le modalità con cui dovrebbe realizzarsi un nuovo dialogo tra umanisti e scienziati sembra ancora piuttosto lontano, e confuso. Sicuramente è possibile dire più facilmente ciò che una “terza cultura” non dovrebbe essere. Se l’idea è quella di sostituire la “filosofia” con dosi massicce di divulgazione imprecisa, apologetica e spettacolare, sicuramente è assai più saggio tenersi due culture in reciproca e guardinga diffidenza. Si rischia infatti di rimpiangere il monito del “famigerato” Croce a Federico Enriques per la nascita nel 1907 di Scientia, “rivista internazionale di sintesi scientifica”: allontanandosi troppo dal suo “racconto interno”, la scienza potrebbe mancare un’autentica comunicazione e rischiare dei meri “successi elettorali”! Molte sono le insidie nascoste nel termine “divulgazione”: un sapere i cui risultati “scendono” dalla torre d’avorio del produttore alla valle del consumatore, sfrondati dal “tecnicismo”, dal contesto in cui sono stati concepiti, il tutto condito dal tono friendly di un nuovo “newtonianesimo per le dame” (Algarotti, 1737), e dalla perentorietà della “spiegazione ultima”. La “terza cultura” promossa da The Edge ha nella complessità e nell’evoluzione i suoi scenari più ampi, e questo dovrebbe ricordarci che sarebbe un rischio di impoverimento ridurre la sovrapposizione e l’intreccio- anche conflittuale!- delle narrazioni umane su una direttrice univoca.Più volte, con gli amici del gruppo Scienza Semplice, abbiamo ricordato che la scienza è una forma raffinata di artigianato, nasce su problemi specifici e costruisce intorno ad essi approcci, metodologie e strumenti, cammino tutt’altro che lineare e privo di controversie. La scienza è un soggetto plurale e dinamico, non uno schiacciasassi culturale. Come scrive Levy Leblond “un enunciato scientifico non può essere vero o falso, ma solamente vero se e falso ma….la forza della scienza sta proprio nella capacità di definire le condizioni di validità dei suoi enunciati”. La comunicazione scientifica non può dunque limitarsi ad
una divulgazione appiattita sul modello mediatico, ma dev’essere critica e chiara sull’intero processo di produzione della conoscenza, includendo le “condizioni al contorno” culturali in cui si sviluppa: pressioni tecnologiche e politiche, pluralità degli approcci possibili, esplicitazione dei “micro-paradigmi” (che sono il racconto epistemico dei vecchi “preconcetti”), frammentazione ed autorefenzialità, falle sempre più evidenti nei meccanismi di controllo e peer review. In molte recenti opere di divulgazione, del resto, appare evidente da parte degli scienziati una goffa emulazione degli elementi che compongono la cultura tradizionale, nella quale però la “divulgazione” non è mai stata riconosciuta come un concetto teorico valido: non esiste il corrispettivo della divulgazione in letteratura, nelle arti o nella musica; esiste piuttosto la frequentazione intima e prolungata, l’affinarsi del giudizio nella prospettiva storica. Bisogna dunque
chiedersi se non siano proprio questi tentativi onnicomprensivi di “spiegazione scientifica del mondo” a soffrire di quella tentazione metafisica che rimproverano agli umanisti. Oggi è impensabile comprendere il mondo senza chiavi fondamentali come la teoria quantistica, le neuroscienze, la biologia molecolare o la teoria dell’informazione. Ma va detto chiaramente, riprendendo il tema lanciato da Feyerabend ne “La Scienza in una Società Libera”, che il variegato sistema di valori e di credenze che anima una cultura non deve la sua legittimità dall’essere garantito e certificato con i metodi della scienza, essi stessi soggetti a processi di mutamenti prospettici. Del resto, l’idea che “ogni” questione umana debba o possa essere esaurita dalla scienza è evidentemente una proposizione non scientifica! E poi, quale tra le scienze ha diritto all’ultima parola, quale scienza è più scienza delle altre?
La consapevolezza della propria specificità, nel raggio d’azione e nei territori di competenza, è la condizione necessaria e la giusta distanza non solo per il dialogo, ma per la stessa sopravvivenza di ogni impresa intellettuale. E la scienza è quella che rischia di più in questa espansione inflazionaria: nulla ci assicura infatti che la tecno scienza sotto la pressione economica non prenda il sopravvento sulla componente intellettuale, e quest’ultima non si assesti sulle rive basse delle teorie di maggior successo mediatico. Una cultura è per definizione unitaria, intessuta dei molteplici fili delle narrazioni che la compongono e si stratificano. E la sua ricchezza deriva proprio dal fatto che il suo ordito è, come la gravità di Verlinde, “emergente” e non predefinito. Il vero problema si rivela così quello, assai più sottile, non della condivisione dei saperi in astratto, e tantomeno di una loro integrazione forzata, ma la condivisione delle responsabilità e delle scelte in mondo sempre più complesso.