Che si tratti di una teoria, una dichiarazione d'amore o una contrattazione economica, nel momento in cui un discorso viene enunciato è informazione che entra in un circuito di comunicazione dove il consenso ed il dissenso, la valutazione positiva, negativa o incerta, gli slittamenti e la moltiplicazione dei piani di significato diventano elementi costituitivi della vita dell'enunciato. Se questo punto di partenza appare evidente ed elementare per almeno due dei casi considerati (l'economia e l'amore), sembra meno ovvio quando si fa riferimento all'attività scientifica.
Lo sviluppo della cultura scientifica come genere culturale autonomo e distinto – che possiamo fissare con l'affermarsi della sinergia tra attività sperimentale e formulazione matematica nel '600- fa largo uso sin dall'inizio di una stratagemma retorico "inverso": la scienza cerca la sualegittimazione facendo riferimento alla capacità di dimostrare e convincere con la forza dei fatti e delle rappresentazioni matematiche, e prendendo le distanze dagli "artifici letterari". E nell'immaginario collettivo contemporaneo questa "anti-retorica" è ancora molto diffusa edutilizzata, nonostante il sentire comune si sia profondamente modificato sulle questioni relative al concetto di "verità". A parte l'ovvia constatazione che questa distanza programmatica dalla narrazione è già una strategia retorica, è impossibile non tener conto che l'affermazione dellascienza deve moltissimo all'efficacia espositiva di Newton – I Principia sono forse una delle opere più eleganti mai scritte!-, ed allo stile argomentativo e seducente di Galilei, che usa con raffinata perizia teatrale la forma del dialogo tra Salviati , Sagredo e Simplicio, e nel Saggiatore tocca vertici letterari che hanno giustamente fatto dire a Leopardi che lo studioso pisano va decisamente annoverato tra i più limpidi padri della lingua italiana. Basterebbero forse queste poche note per far comprendere che l'impresa scientifica, come ogni attività umana, ha fatto e faampio uso della retorica, di quelle arti del "discorso persuasivo che tende asuscitare l'adesione , sia intellettuale che emotiva, di un uditorio,qualunque esso sia" (C. Perelman).
Negli ultimi anni la riflessione critica sulla razionalità scientifica ha iniziato a considerare le strategie di comunicazione di teorie e risultati sperimentali come parte essenziale dell'impresascientifica. In questo modo la scienza – lungi dal perdere efficacia- piuttosto preserva la sua forza indagatrice , permettendo di distinguere più rapidamente con chiarezza le acquisizioni "solide", quelle che mostrano vitalità e fecondità prospettica, dai vari dibattiti "locali" , legati a specifici programmi di ricerca o più genericamente "contesti", che funzionano da "incubatori" ( o "scale" wittgensteiniane) di un risultato, ma che in un secondo momento possono rivelarsi bozzoli infecondi da lasciarsialle spalle.
Ci limitiamo a ricordare il caso esemplare della fisica quantistica, in cui il dibattito interpretativo è stato spesso stimolante ma non ha intaccato o modificato la struttura formale e l'uso dell' equazione di Schrödinger nell'esplorazione del mondo microscopico e nello sviluppo della scienza dei materiali. E' vero piuttosto che le opzioni epistemiche sulla meccanica quantistica hanno più di una volta, ed ancora oggi, rallentato una visione corretta dei legami tra la fisica quantistica del 1927 e la più matura teoria quantistica dei campi, favorendo anche una vulgata "paradossale" e falsata di questa potente e fondamentale disciplina.
Che sia sempre più urgente prendere atto che la partita giocata dalla scienza non è una partita a due (il ricercatore e la natura) ma bensì una partita a tre ( il ricercatore, la natura e la comunità), come scrive efficacemente Marcello Pera, è dimostrato dalla ricerca nei campi delle neuroscienze, della biologia molecolare e della biomedicina, di enorme interesse culturale ed economico. Qui lo schieramento dei programmi di ricerca, le "immagini" ed i "vincoli sul corpo della conoscenza" (Elkana), sono tali da rendere davvero difficile una demarcazione tra un ideale "contenuto scientifico" e le strategie retoriche per affermare e promuovere non soltanto un'interpretazione dei dati in gioco ma un intero Theatrum mundi sul quale si organizza una specifica articolazione delle conoscenze.
E' evidente che in un contesto così ricco di prospettive e motivazioni, può essere davvero difficile operare una distinzione tra il risultato, le sue sottodominanti interpretative e la scelta delle campagne di comunicazione del "prodotto scientifico" in quello che Marcello Cini ha efficacemente chiamato il supermarket di Prometeo. Sono nati nuovi concetti epistemologici per descrivere questa intricata situazione. Ad esempio i micro paradigmi (Andrey Rzhetsky et al. , 2006), catene di ragionamenti collettivi che agiscono nella comunità come criteri di prevalutazione , selezione e "normalizzazione" di un risultato, al punto da poter essere considerati- più che filtri cognitivi come il paradigma kuhniano-, una concettualizzazione pragmatica del "pregiudizio". E questa situazione porta con sé, diremmo sistemicamente, una tendenza pericolosa al'abuso ed alla forzatura che non di rado sfiora livelli patologici e preoccupanti per il futuro e lo stato di salute dell'attività scientifica. Se a questo aggiungiamo una dimensione sempre più appiattita verso la spettacolarità fine a sé stessa della divulgazione scientifica, si può ben comprendere che il rischio della fine della scienza come impresa culturale e la sopravvivenza di una sua mutazioneparticolare, la tecno scienza, è consistente ( Levy Leblond,2010; Giuliani, 2010).
Se la scienza contemporanea rischia – lost in the supermarket– di perdere "consistenza" e di trasformarsi in qualcosa d'altro, che dovremmo dire della politica ed in particolare della democrazia? Ricordiamo infatti che lo sviluppo della modernità ha visto sempre procedere di pari passo l'attività scientifica e l'ampliamento delle garanzie democratiche come libera espressione dell'uomo e capacità critica di modellare il proprio ambiente.
In effetti, anche per la politica è possibile fare un'analisi per molti versi parallela a quella che abbiamo delineato per la scienza, e trasportare i nodi concettuali verso un'indagine scientifica della natura della politica contemporanea. Prendendo spunto dal formidabile libro di Angelo D'Orsi (D'Orsi, 2009), possiamo far cominciare la nostra riflessione nel 1989. La caduta del muro di Berlino fu un momento di grandi speranze per il futuro della democrazia e della pace mondiale. Due immagini: il personaggio del giovane turco felice di mostrare la propria diversità nel romanzo Cani Neri di Ian MacEwan, e Leonard Bernstein che dirige la nona di Beeethoven modificando l'inno alla gioia di Schiller, che per l'occasione diventa un inno alla libertà (Freiheit). Eppure proprio la fine della tensione ideologica vede, più che lo sviluppo verso la piena maturità del liberismo, finalmente alla prova come modello del mondo, l'affermarsi rapido di una sorta di post-democrazia che rapidamente si modella sui parametri dell'iperconsumo globale e si dimentica dei valori storici del liberismo, si alleggerisce disinvoltamente del bagaglio illuminista ed umanista, abdica al principio fondante della civiltà giuridica. Migliaia di nuovi muri su una linea della palma sempre più rapida e frattale, una massiva gerarchizzazione dell'uomo in base a criteri di reddito, e una crisi economico-finanziaria costante e generalizzata sembrano indicare che il supermarket dove si è perduto prometeo è anche il luogo dove si è arenata la democrazia, e si è eroso progressivamente il suo significato. Anche in questo caso, come in quello della scienza, troviamo una mutazione sostanziale dei termini del gioco democratico, sottile fino al rischio del tradimento delle sue premesse fondamentali. Sotto la pressione di un mercato sempre più onnivoro e selvaggio ed in preda alla "vertigine comunicazionale" (Hernàndez), le rappresentanze popolari e le strutture di base partitiche sulle quali si organizzava l'espressione della partecipazione democratica sono state sostituite da una più funzionale
e vendibile immagine del leader, non più portavoce o espressione di un movimento, ma format di una sovrapposizione pubblico/privato che sintetizza uno stile di vita, di pensiero e di consumo.
A questo punto, la retorica non è più l'arte di rendere convincente una proposta politica praticabile, ma è tout-court la politica, intesa come stilizzazione iconica dei vestiti nuovi dell'imperatore. Le democrazia occidentale appare oggi una petizione di principio dietro la quale si intravede la realizzazione delle più fosche profezie della scuola di Francoforte insieme con il gusto artificiale del manichino mediatico Max Headroom, le distonie di P. K. Dick, i virus culturali mutanti di W. Burroughs.
Dalla prefazione al libro di Irune Medina, “La Politica come Marketing. Il Lato Oscuro del Linguaggio”, Aracne, Roma, 2001